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December 10, 2006

 

 

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live

Afterhours/Perturbazione
Milano, Alcatraz, 21.4.2005

Alla fine, la differenza l'ha fatta il signor Greg Dulli da Cincinnati, Ohio. Del resto, Milano non è la verità e Rivoli (To) fa schifo. Come tutto il Nord Italia. Che accomuna Perturbazione e Afterhours è il rigetto del cordone ombelicale col proprio territorio: rivoli e circonvallazioni esterne. Ma siamo pur sempre al Nord, ricordiamolo. Tra piccole iene, dove anche il sole sorge - e tramonta - solo se gli conviene. Posto che per festeggiare l'evento Milano inventa la giornata double-face, sudata di giorno e fresco-umida di sera, dentro il microclima è diverso. I Perturbazione scaldano gli astanti; sono un bel tepore. Tommaso in prima linea; gli altri dietro, quasi allineati. Le canzoni confermano. Rock d'autore italiano tra i più espressivi in voga al momento. Scappa qualche battuta tra un brano e l'altro (si è appena rinnovato il soglio di Pietro) e la folla gradisce, come gradisce tutta la performance, in verità. Per gli Afterhours, ennesimo ritorno a casa. Quelli che attaccano una tesa Ballata PerLa Mia Piccola Iena non sono gli Afterhours cafoneggianti delle ultime date del vecchio tour (ok, non li avevo visti nella data e, soprattutto, nel posto migliore), anzi. Esorcizzata una volta per tutte la dipartita di Xabier Iriondo, grazie al contro-favore di Greg (Agnelli coi Twilight Singers in America) il suono acquista in corpo. Stazza. Peso. Elettrico. La Fine È La Più Importante. L'uomo di Cincinnati ai cori, in italiano, per Male Di Miele. Grande umiltà. Grande la comunione di intenti. Dopo la prima terzina la scaletta, come preventivabile, si biforca. Ora le novità, ora il repertorio meno soggetto a usura. Sorprendono Dea, Veleno e Musicista Contabile. Carne Fresca per quanto concerne il nuovo, tra una patologia (Ci Sono Molti Modi), soul sparato in endovena (La Vedova Bianca), trasfusioni blasfeme (de Il Sangue di Giuda), iniezioni (o inalazioni) al calor bianco (La Sottile Linea Bianca). Bellissimo, il quadro clinico. Ci vuole un po' a riconoscere Atmosphere dei Joy Division, cantata a turno e palleggiata tra più voci. Sforzo fisico più che piacevole per arrivare alla fine. Precipitando con l'elastico si vedono le cose nel modo di Bungee Jumping. Immolate Quello Che Non C'è e Voglio Una Pelle Splendida (grande Dulli che si cimenta con una lingua sua solo per un quarto: sei un signore e un amico, Greg), l'atto sacramentale gira a mille sulla giostra beatlesiana di Helter Skelter. Brindisi. Cala il sipario dopo una ventina di brani. Il fervido trionfo che si preannunciava. Al quale ci si è ormai assuefatti; o forse no. Bello, comunque, poterlo rinnovare ogni volta.

Tommaso Iannini

R.E.M.
Milano, Forum, 15.1.2005

Decisamente a Michael Stipe avrebbe dovuto allungarsi il naso, ma non l'abbiamo notato. Era lui che ci diceva non più tardi di settembre di avere una fiducia illimitata nei pezzi del nuovo disco, Around the Sun, il cui tour promozionale europeo ha fatto tappa in un Forum esaurito, caloroso quanto basta pur senza strafare. Eppure sono stati proprio i brani nuovi a presentarsi in stato di forma leggermente precario. High Speed Train non ha ancora risolto l'annoso problema che sta nel missare l'anima dentro ai campionamenti, e anche Leaving New York sta ancora con i piedi piuttosto fissi a terra. A volare alto, invece, è la tripletta d'esordio: i R.E.M., quarantasette anni di media, ci danno la sveglia con vecchie gemme come Finest Worksong, Begin the Begin e Departure. Stipe in forma smagliante, giacca nera, cravatta arancione e la solita fascia scura da mago dipinta attorno agli occhi, fa pratica da subito con le sue mosse glam e così non c'è verso: le prime file sono già in ginocchio e il pubblico ai suoi piedi.
Oggi, forse, non esiste frontman più energico e insieme elegante. Stipe prende in mano il concerto dall'inizio alla fine, immobile sulle note dell'assolo sghembo e lancinante di un preciso Peter Buck in Country Feedback, trascinante e smodato in una massiccia, chiassosa versione di Imitation of Life presentata come "il nostro primo numero uno in….Giappone". Che dire quando si avvicina a Mike Mills per affiancarlo ai cori e gli si inginocchia come davanti a un dio greco? Mills del resto sta al gioco: il bassista sfodera una giacca di lustrini come premessa, poi si scatena in esilaranti pose da hard rocker per i fortunati delle prime file. Comprimari di lusso i polistrumentisti Scott McCaughey, Ken Stringfellow e l'ex-Ministry Bill Rieflin alla batteria. Lo scenario, composto di raffinatissime luci al neon, completa il quadro.Ma sarebbe solo questa la fama dei R.E.M.? Niente affatto. Prendere Seven Chinese Brothers ripescata addirittura dal lontanissimo 1984. Un gioco di chitarre che mi ricorda le trame soffici di Band of Susans, e che ora suona modernissimo e sofisticato, leggiadro e voluttuoso davanti a 13.000 persone. Sono sicura che qualcuno ha pianto sulla versione straziata di Everybody Hurts e rinnegato l'amore sulla progressione western di The One I Love ma è questa filastrocca infantile a lanciare il gruppo verso un'altra dimensione. Sono i meravigliosi R.E.M. che abbiamo amato e sono ancora lì "nonostante gli anni e nonostante i tempi". Sono ancora i R.E.M. "impegnati". Stipe si scusa pubblicamente per l'arroganza degli USA introducendo con un lungo monologo i due pezzi "politici" del nuovo disco I Wanted to Be Wrong e Final Straw. "Il nostro paese è un posto in cui gente come me talvolta si sente persa", dice. "Ho iniziato il 2005 con una nuova morale: l'ho rubata a Joseph Arthur e dice che non mi arrenderò". Ne siamo sicuri. I R.E.M. "camminano senza paura", anzi corrono. Peter Buck salta alla Pete Townshend e la band chiude con la sfrenata Permanent Vacation e l'inedita I'm Gonna DJ prima del finale a mani alzate di Man on The Moon. Facciamo che ce li teniamo sulla terra, ancora per un po'.

Milena Ferrante

 

Interpol
Milano, Transilvania live, 14.4.2003

Siccome lo slogan "Punk's not dead" è tuttora vivo, vegeto, abusato più che mai, allo stato attuale della scena rock ne andrebbe coniato un altro: Post Punk's un-dead. Non morto. Chi si ricorda i Bauhaus batta un paio di colpi e un colpo apoplettico, o un romantico tuffo al cuore, prenderà i fanatici dei Joy Divsion. La belalugosizzazione del rock, vampiro di se stesso per sua stessa volontà e carenza di idee, porta infatti a un disco discreto a tratti davvero bello, e ispirato, dei newyorchesi Interpol. Alla fine del 2002 e ventidue anni dopo la morte di Ian Curtis, il brano PDA resuscita il baritono maudit quando l'inizio di Roland appare un impianto genetico del giro di Transmission su quello di Shadowplay. E ora Aprile 14, 2003, "here are the young men": eccoli prendere in penombra il palco del Transilvania, un'entrata senza trionfalismi dopo che i British Sea Power hanno intrattenuto la platea con un guitar-pop rumoroso e spiritato. In tema Nosferatu, il locale di via Paravia è la cornice per eccellenza: lumini cimiteriali e lapidi con i nomi dei gruppi e il giorno in cui di lì (tra)passarono, Interpol impeccabili negli abiti scuri di regolare e impiegatizio protodark (il solito quartetto mancuniano). Solo i basettoni del chitarrista (Daniel Kessler) lasciano a desiderare; comunque sono meno figurini scapigliati rispetto agli Strokes. Hanno facce da belli e dannati come il biondino Paul Banks, un viso da modello solo un po' troppo in carne in cui diresti a fatica risiedere il vocione cupo e disperato che si ascolta in Turn On The Bright Lights, roba da Curtis al quadro. Stilistico anche Carlos D, basso, un Ivor Novello uscito diretto dalla muta celluloide di The Lodger (L'inquilino, 1927). A proposito della nebbia londinese di cui era densa la pellicola di un ancor giovane Alfred Hitchcock, la bruma e le tenebre d'oltremanica, per gli Interpol, contano, e lo si era capito, quanto le mille e più luci della natale New York. Television, e prima ancora Velvet Underground, Wire, Cure e Psychedelic Furs, nella loro musica. Questo oltre ai Curtis, Sumner, Morris e Hook verso i quali mostrano una comprensibile deferenza, eppure proprio in questi giorni ascolto la raccolta retrospettiva dei Carnival Of Fools, Blues Get off My Shoulder, dove c'è una versione solo piano e voce di Love Will Tear Us Apart. Che tradisce fedelmente la lettera e preserva spirito e interpretazione. Questi americani sono assai più fedeli alla lettera nei loro pezzi originali: dal vivo sono cinque e l'attacco, c'era da scommetterci, è lo stesso del disco (Untitled): "I will surprise you some time"…. Il concerto prende il largo tra la new wave decadente e la casa madre New York, il cui bacio congelato è descritto in uno dei pezzi più riusciti, NYC. Sentire Paul cantare dal vivo è un'altra cosa, il suo modo di fare è ben meno replicato e assai più personale. Un'ora totale di concerto compreso il bis di due brani: il repertorio, dopo un solo album, è quello che è. Captato al volo un commento mentre uscivo: "Abbiamo pagato quindici euro per vedere i Joy Divisions" (sic). Leggo sul treno un articolo entusiasta di NME su una loro performance dal vivo: "Come classici quali Stone Roses, Pixies e indietro fino ai Velvet, gli Interpol ispirano cuore, piedi e intelletto in egual misura". Spero che l'entusiasmo sia genuino e non qualcosa di dovuto al punto da suonare mollichiano. O sarò io troppo pignolo, come su certe "s" finali.

Tommaso Iannini

Calla
Milano, Cox 18, 21.4.2001

Aurelio Valle, chitarra e voce, e Sean Donovan, basso e tastiere del nuovo culto Calla, sembrano aver comprato gli abiti di scena nello stesso megastore. Giubbotti e jeans ugualmente anonimi e volti da ragazzi perbene, I Calla imprimono nella loro normalità le stimmate delle star.
Basta arrendersi alla dolce mollezza delle linee di basso e farsi ipnotizzare dai sussurri appena un po' torbidi della voce e si vola da qualche altra parte, in un mondo che ha a che fare più con la spettrale rarefazione della vita sulla luna che con la solarità delle terre tex-mex da cui il gruppo proviene, pur riuscendo a conservare un saldo legame con la tradizione delle musiche del sud delle americhe.
In tempi avari di star, Aurelio ha pure il physique du rôle che conviene: il pubblico del Cox 18, piuttosto folto in un sabato freddo e ventoso, lo incita a gran voce, chiamando insistentemente Dear Mary, unico dei piccoli hit a non trovare spazio nella scaletta. Calla sono supporto al tour italiano degli Hood, ma rubano agevolmente la scena. Il gruppo ammalia senza strafare, ti irretisce e nemmeno te ne accorgi, il paesaggio è desolato e il segreto per non morire è aggrapparsi al battito rituale dei drums e diavolerie elettroniche di Wayne Magruder e ai drones minimali della chitarra. Inutile richiamare i fantasmi di Slint o Come che dell'estetica della lentezza intorbidita hanno fatto un'arte: chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Intanto Calla completano l'opera di ipnosi collettiva facendo salire di ritmo le onde sabbiose della valle della morte fino a sfociare in una sognante, luminosa cover di Promenade degli U2 che singhiozza e si contorce sino allo spasmo finale. Un fuoco indimenticabile.

Milena Ferrante

 

The Roots
Milano, Rolling Stone, 6.12.2006

Il basso di Hub, un sesto dei Roots, freme, urla e si contorce lasciato da solo sul palco a gemere in sei minuti di un happening che resuscita una storia. E tutta Milano esplode. Nell'unica tappa italiana del tour del gruppo hip hop che riscrive le regole della musica nera in spigoli e colori primari, i Roots danno lezione di eternità. Benchè ci voglia un po' perché il sestetto inizi a inserire la marcia giusta, e Black Thought, il rapper e frontman si dimostri in effetti il meno esplosivo del lotto (dando una mano ai suoi soliti critici), i ragazzi di Philadelphia si arrampicano senza apparente sforzo sulle vette del mondo. The Seed, l'hit in origine cantato con Cody ChesnuTT, spunta nei supplementari, di fatto solo la crema di un'esibizione strabiliante, in cui non si capisce più dove finisca un'accuratissima ricerca sul suono (vedere il wah wah sottilmente pizzicato) e dove inizi l'improvvisazione. E laddove la complessità sensuale di Game Theory è spesso ridotta a soli di voce e sezione ritmica è quando il gruppo decide di lasciarsi andare che arriva l'asso.
Captain Kirk, chitarra e uno scat vocale da jazzista puro, prende in mano le redini a metà strada e più che su Marte ti ritrovi al cospetto di un indiavolato erede dei Funkadelic: in dieci minuti i Roots citano gli U2 (senza che nessuno se ne accorga), strapazzano i Police di Roxanne, e salmodiano a Bob Marley. Tutto vero e tutto dritto da sei ragazzi neri che alla fine regalano bacchette, abbracci e piatti di batteria a un pubblico delirante. It's only hip hop but I like it.

Milena Ferrante

Bright Eyes
Torino, Traffic Free Festival, 30.6.2005

Ti bastano pochi minuti sul palco del Traffic Free Festival per renderti conto del perchè Conor Oberst sia una star. Con dieci musicisti sul palco, gli riesce di recitare altrettanto bene la parte del direttore d'orchestra consumato come del baby eroe per adolescenti alternativi con i denti da latte. I Bright Eyes suonano qui, credo, praticamente gratis, eppure c'è già la caccia finale ai fogli con la scaletta e quella alla lattina di birra su cui l'eroe ha posato le labbra. I pezzi, già in origine canzoni pop abbastanza eccentriche e mai con una sequenza di accordi che non sia almeno un po' sbilenca, sono ingigantiti dall'impianto strumentale più magniloquente che si possa immaginare: tre tastiere, due chitarre, un basso, due batterie, violino e violoncello elettrificato e, a tratti, persino i fiati. Bombastico, direbbero gli inglesi. E ho l'impressione che sarebbe molto meglio se qua e là Conor mettesse i piedi sul benemerito freno. Ma, a quel punto, non avremmo un gruppo da grande palco e il gioco sarebbe finito lì. Invece, Conor ci crede. Ci crede quando sale in ginocchio sulla tastiera perdendosi il microfono, quando farfuglia improbabili storielle sul senso delle canzoni, o vaga seguito come un'ombra da un tour manager fin troppo apprensivo.
Con tutto ciò, non sono ancora certa se i Bright Eyes ci fanno o ci sono. Tanto meglio. Perchè è il non sapere quello di cui abbiamo davvero bisogno.

Milena Ferrante

Moltheni
Cameri, Villa Picchetta, 29.6.2005

Spesso non è solo cosa senti ma dove lo senti. Ho sentito Moltheni parecchi anni fa quando faceva promozione radiofonica a RadioRai. Ne è passato di tempo e per il cantautore marchigiano è stato abbastanza travagliato. Un disco, Splendore Terrore, che ha faticato a venire fuori per i soliti problemi a farsi sentire dalle case discografiche, specialmente ora che, si dice, l'industria è in crisi. Ma Moltheni sembra voler proseguire sulla sua strada. Accanto a un vero focolare e accompagnato da poche candele in una piccolissima, intima sala di una villa padronale di Cameri, sembra spuntare il suo vero io. In acustico, con una sola chitarra ad accompagnarlo suona struggente e passionale, ma mai malinconico. Un Tim Buckley tutto nostro, che predilige storie di rapporti individuali, entro i quali riesce a declinare le coordinate della Storia. Peccato soltanto che non abbia voglia di usare con continuità la sua splendida voce, ma forse ha semplicemente deciso che è meglio così. Non è un compito facile ammaliare con tocchi estatici rinunciando all'epicità. Non so. Per la sua musica qui a Cameri potrebbero bastare due sole parole: splendore, terrore.

Milena Ferrante

Patti Smith
Milano, Alcatraz, 18.10.2004

“Arthur Rimbaud quasi morì in piazza Duomo. Aveva fame e una donna di Milano lo prese con sé e si prese cura di lui e così vorrei salutare tutte le donne di Milano.” Patti Smith richiama i suoi santi spiriti appena prima di partire in folle con Beneath the Southern Cross. Siamo all’Alcatraz, niente che faccia pensare a qualcosa di mistico, ma Patti rotea su se stessa con i capelli al vento nel suo rito sciamanico. Patti Smith è tutta qui. Due ore di concerto per presentare il nuovo Trampin' (assieme al giovane compagno, Oliver Ray, a Tony Shanahan e agli storici Lenny Kaye e Jay Dee Daugherty) che finiscono per trasformarsi in qualcos’altro. Me la ricordo benissimo qualche tempo fa davanti alla folla immensa dell’idroscalo a Milano all’arrembaggio con People Have The Power e la gente che le urla “Ti amo”. Anche qui Patti è “la donna della vita”. Si, perché questo non è un concerto, ma una specie di teatro per il popolo, che profuma di celebrazione religiosa. Tanto che Patti a un certo punto invoca persino Albino Luciani, anche se a suo dire “il papa, non capisco nemmeno cosa faccia”. Inforca gli occhiali e recita per lui una poesia nel silenzio generale. Poi suona il clarinetto per celebrare. E celebrazione sia. Niente ci sembra retorica quando c’è lei al comando.Persino l’arringa a pieni polmoni anti-Bush, con la sacerdotessa che grida che “se non siete d’accordo con quello che l’amministrazione Bush sta facendo prendete d’assalto le strade, fateglielo sapere, siamo qui, non staremo zitti, non resteremo in silenzio!” E così capita che quando arriva immancabile People Have the Power alla fine di un’ora e mezza abbondante trapuntata di alcuni classici (Redondo Beach e Free Money) ci crediamo davvero. La grande marea dell’Alcatraz balla su e giù agita i pugni in aria mentre lei da lassù stringe le mani delle prime file. Un tripudio. Non si può, non si può proprio resistere. Le cellule cerebrali della parte sinistra non ci sentono più, non gliene frega se poi questo è un inno in sostanza sufficientemente populista da far fatica a crederci. Una delicatissima Trampin' fa da preludio a un’incendiaria versione di Gloria rivisitata da Van Morrison ma che è ormai tutta sua. D’un tratto ci sembra di essere traghettati nel ’79 e di non aver perso niente. Non so perché ma in un attimo “abbiamo quella strana sensazione di averla fatta nostra”.

Milena Ferrante

Neil Young
Milano, Teatro Smeraldo, 3.5.2003

Lo sappiamo. Un concerto acustico di Young è di per sé un evento.
In passato mi è capitato di pensare che la famosa navicella spaziale di After The Gold Rush avrebbe potuto contenere un po' di semi delle sue canzoni. Beh, non che ne dubitassi, ma lo show di Milano non ha fatto altro che riconfermare Young a livelli assoluti. Ci aveva messo un po' a carburare nell'ultima sua apparizione elettrica in Italia qui invece il setting intimo ha imposto una concentrazione assoluta, fin dall'inizio. Ceri accesi su un meraviglioso organo a canne e un piano gran coda Steinway creano lo scenario, con Young sistemato leggermente sulla sinistra a manovrare chitarre acustiche di diversa potenza.
Falling From Above, già sentita al Bridge Benefit, inaugura un primo set di nuovi pezzi di quello che sembra essere un concept album su una cittadina di provincia, Greendale. Un'ora e quaranta nette di soli brani nuovi e dire che non fossero proprio di facile ascolto è un eufemismo. Blues a ritmo boogie (Double E), folk dylaniano in Devil's Door e Charmichael (i titoli dei pezzi sono provvisori) e Young che introduce ogni brano per una buona manciata di minuti con un recitativo da storyteller e toni sommessi.
Non senza humour, ha già avvisato gli sprovveduti (due tipi posizionati dietro di me hanno lasciato la sala a metà del primo set) che "quello che aspettate verrà un po' più tardi di quanto possiate pensare", mettendo quindi fin da subito al bando ogni possibile velleità nostalgica per il tempo che fu. Qualcuno non gradisce e gli urla di smetterla. Young ricambia con un "Fuck YOU" precisando poco dopo "Spero di non avervi offesi"."Non si possono continuare a fare le stesse cose anno dopo anno", spiega.
Bisogna davvero avere un coraggio unico e un'ambizione smisurata (e magari anche un pizzico di sano egocentrismo) perché non si può pensare di suonare per un'ora e mezza pezzi tanto introversi costringendo letteralmente la gente ad ascoltarti. Una toccante, sussurrata, Find What You're Looking For ne esce come la migliore del lotto, ma Be The Rain, un altro inno per la madre terra, chiude in modo altrettanto magnifico. Seguendo la storia del protagonista, che, coinvolto in un omicidio, viene inseguito dall'FBI sino in Alaska, Young si alterna al microfono "normale" e a quello effettato a simulare il megafono degli inseguitori con risultato davvero straniante.
Nelle sue mani l'acustica diventa un'orchestra, con un grappolo di seconde voci che sgorgano dagli accordi. A volte gli basta toccare una corda sola, contorcendola sino allo spasmo. Ricorre agli accordi gravi esattamente quando ce n'è bisogno, e non su tutti i tempi forti. La corda più bassa, poi, è lasciata leggermente morbida e distorta, con un effetto davvero magnifico. C'è un che di ancestrale in quella vibrazione, il pulsare del destino inesorabile che grava sui personaggi delle sue storie.
Lotta Love spezza l'incantesimo inaugurando i sessanta minuti del secondo set. Young fa quello che vuole anche nella seconda parte e il pubblico sembra un'appendice necessaria, magari nemmeno troppo importante. Quando si siede finalmente allo Steinway per Expecting To Fly qualcuno urla nel bel mezzo del pezzo. Young si confonde, ammette che "ormai ho fatto un casino" si alza dal piano e molla il pezzo a metà strada!!
L'impressione è che suoni per se stesso, fregandosene di tutto e di tutti, facendo esattamente quello che deve fare quando lo deve fare. La sua grandezza, è evidente, sta davvero in questo. Long May You Run all'organo a canne e armonica è un inno che trasuda spiritualità e a questo punto non abbiamo bisogno di molto altro.
A Young non importano le celebrazioni né l'enfasi del mondo terreno. Il suo egocentrismo di esecutore nasce da un volontario esilio dagli affanni del vivere e sancisce, paradossalmente, la conquista di una nuova forma di solidarietà. L'unione di Young col suo pubblico è celebrata nel silenzio e nell'introspezione.
Forse adesso possiamo capire perché è riuscito a rimanere a galla tanto a lungo, nonostante internet, la crisi del disco e tutto il resto. Mi sa che comincio a odiare i Pearl Jam per averlo sentito suonare la chitarra nel suo ranch da solo davanti ai falò.

Milena Ferrante

Michael Franti
Milano, Radio Popolare, 12.5.2001

I had a dream. It is something I dreamt about when I started listening to popular music or whatever you wanna call it. I dreamt about popular music and its glorious past, when music was "popular" in the true meaning of the word, a creative act from the people to the people.
My personal Spearhead experience dates back to four years ago. It was a warm sunny afternoon in Milan and I was trying to trace some of the band members hoping to get them answer a few questions I had prepared for them. Michael was the first to show up; I'm used to frowning Italian musicians so I was immediately won by his naïve enthusiasm: when I handed in the sheets, he didn't even have a look at the questions; he simply nodded from up there, half a metre above me, and said with a smile: "Sure".
But, actually, I hadn't had THE experience yet. That was to come five hours later, a memorable 2-hours of deep, soulful, colourful, passionate songs for freedom. That day, I had to leave before the show ended to catch my train back home, and I couldn't get my questions sheet back. But I knew I had met some music for a life.
Four years later, as in those old English ballads with never-ending choruses, the story goes full circle.
Spearhead are back in Italy and, though I still don't know, I'll be forced to leave the show well before its end……….But this is some other story.

It's Friday, and the band is about to play two shows in Milan, one at a local radio's studio, another in a squat near the elegant boroughs surrounding the centuries old Castello Sforzesco, but I only get to know that at the very last minute. This, if you can think about it, means that high scale promotion really matters. In four years, Michael Franti has leaned back on "smallness" and chosen independence and he's seemingly paying the price of it, invisibility. But the thing is, he is not, definitely, an invisible man. He is a "man of substance, of flesh and bone". Someone said that "it is sometimes advantageous to be unseen, although it is most often rather wearing on the nerves". 'Cos, it happens, "you're constantly being bumped against by those of poor vision".
I know exactly the meaning of doing things on your own. I went from contributing to some other people's 'zines to running one myself and that means you have to work hard, though no one usually can imagine even the least part of it until you get involved. Franti has apparently gone through the sorrowful process of being hurt by those of poor vision, but you don't judge independence from music styles or moving home. Independence is something within, it is not going to vanish if seen through mirrors of distorting glass.
In the tiny room of the local radio station "Radio Popolare", eighty people or so are ready once again to believe in miracles. Spearhead starts smoothly with a new beautiful prayer, Oh my God, before launching into a totally renewed version of the old hit Positive. The wonderful grooves of the rhythm section and the subtle interchange of the guitar-keyboard duet turn the original post-millennium fears into a mature acceptance of responsibilities. Positive now deals about doubts with a much more reflexive stance, that of adulthood. It's election time in Italy and Franti feels the urge to indulge into bits of political speech: "We feel like things are changing in this world because they are changin' and it seems like the corporate interests of the world are always being held above the interests of human beings and of the natural world and I wanna say to all the people of Italy that we stand by you no matter how this election turns out and we hope that you stand with us, no matter how things turn out in America…because they say that when America sneezes the rest of the world gets a cold……..". It is certainly not the now boring fuck-the-system attitude, rather, a witty redefinition of what is going around us and of a good way to fight. And I could easily go on along with them until the break of dawn when Dave Shul comes out with futuristic wah-wah riddles among the funky serpentines of People in the Middle adding unknown flavours to an already exquisite cake. Streets Have a Life (Every Single Soul), says Franti, and that is simply the most sublime example of funk I can remember, resurrecting from the glorious heritage of Sly Stone, Parliament and Funkadelic. We are just eighty freaky people in a small room but "all the freaky people make the beauty of the world" and Carl Young's bass and Kevin's keyboard exchanging leads take us into a joyous football chant.
Yes, Michael, WE ARE definitely "FEELING"…. And how we couldn't?
The keyboards and vocal lines in the ballads are pure Al Green and a frantic samba break is there to "show us something beautiful". There is no need, the purity and soulfulness of the band's music are preaching to the converted. Tonight, you just feel like you can touch the sky. And, if you continue to struggle, you might even happen to reach God's hands………

Milena Ferrante

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