December 10, 2006
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Afterhours/Perturbazione Milano, Alcatraz, 21.4.2005 Alla fine, la differenza l'ha fatta il signor Greg Dulli da Cincinnati, Ohio. Del resto, Milano non è la verità e Rivoli (To) fa schifo. Come tutto il Nord Italia. Che accomuna Perturbazione e Afterhours è il rigetto del cordone ombelicale col proprio territorio: rivoli e circonvallazioni esterne. Ma siamo pur sempre al Nord, ricordiamolo. Tra piccole iene, dove anche il sole sorge - e tramonta - solo se gli conviene. Posto che per festeggiare l'evento Milano inventa la giornata double-face, sudata di giorno e fresco-umida di sera, dentro il microclima è diverso. I Perturbazione scaldano gli astanti; sono un bel tepore. Tommaso in prima linea; gli altri dietro, quasi allineati. Le canzoni confermano. Rock d'autore italiano tra i più espressivi in voga al momento. Scappa qualche battuta tra un brano e l'altro (si è appena rinnovato il soglio di Pietro) e la folla gradisce, come gradisce tutta la performance, in verità. Per gli Afterhours, ennesimo ritorno a casa. Quelli che attaccano una tesa Ballata PerLa Mia Piccola Iena non sono gli Afterhours cafoneggianti delle ultime date del vecchio tour (ok, non li avevo visti nella data e, soprattutto, nel posto migliore), anzi. Esorcizzata una volta per tutte la dipartita di Xabier Iriondo, grazie al contro-favore di Greg (Agnelli coi Twilight Singers in America) il suono acquista in corpo. Stazza. Peso. Elettrico. La Fine È La Più Importante. L'uomo di Cincinnati ai cori, in italiano, per Male Di Miele. Grande umiltà. Grande la comunione di intenti. Dopo la prima terzina la scaletta, come preventivabile, si biforca. Ora le novità, ora il repertorio meno soggetto a usura. Sorprendono Dea, Veleno e Musicista Contabile. Carne Fresca per quanto concerne il nuovo, tra una patologia (Ci Sono Molti Modi), soul sparato in endovena (La Vedova Bianca), trasfusioni blasfeme (de Il Sangue di Giuda), iniezioni (o inalazioni) al calor bianco (La Sottile Linea Bianca). Bellissimo, il quadro clinico. Ci vuole un po' a riconoscere Atmosphere dei Joy Division, cantata a turno e palleggiata tra più voci. Sforzo fisico più che piacevole per arrivare alla fine. Precipitando con l'elastico si vedono le cose nel modo di Bungee Jumping. Immolate Quello Che Non C'è e Voglio Una Pelle Splendida (grande Dulli che si cimenta con una lingua sua solo per un quarto: sei un signore e un amico, Greg), l'atto sacramentale gira a mille sulla giostra beatlesiana di Helter Skelter. Brindisi. Cala il sipario dopo una ventina di brani. Il fervido trionfo che si preannunciava. Al quale ci si è ormai assuefatti; o forse no. Bello, comunque, poterlo rinnovare ogni volta. Tommaso Iannini R.E.M. Decisamente a Michael Stipe avrebbe dovuto allungarsi
il naso, ma non l'abbiamo notato. Era lui che ci diceva non più
tardi di settembre di avere una fiducia illimitata nei pezzi del nuovo
disco, Around the Sun, il cui tour promozionale europeo ha fatto
tappa in un Forum esaurito, caloroso quanto basta pur senza strafare.
Eppure sono stati proprio i brani nuovi a presentarsi in stato di forma
leggermente precario. High Speed Train non ha ancora risolto
l'annoso problema che sta nel missare l'anima dentro ai campionamenti,
e anche Leaving New York sta ancora con i piedi piuttosto fissi
a terra. A volare alto, invece, è la tripletta d'esordio: i R.E.M.,
quarantasette anni di media, ci danno la sveglia con vecchie gemme come
Finest Worksong, Begin the Begin e Departure. Stipe
in forma smagliante, giacca nera, cravatta arancione e la solita fascia
scura da mago dipinta attorno agli occhi, fa pratica da subito con le
sue mosse glam e così non c'è verso: le prime file sono
già in ginocchio e il pubblico ai suoi piedi. Milena Ferrante
Interpol Siccome lo slogan "Punk's not dead" è tuttora vivo, vegeto, abusato più che mai, allo stato attuale della scena rock ne andrebbe coniato un altro: Post Punk's un-dead. Non morto. Chi si ricorda i Bauhaus batta un paio di colpi e un colpo apoplettico, o un romantico tuffo al cuore, prenderà i fanatici dei Joy Divsion. La belalugosizzazione del rock, vampiro di se stesso per sua stessa volontà e carenza di idee, porta infatti a un disco discreto a tratti davvero bello, e ispirato, dei newyorchesi Interpol. Alla fine del 2002 e ventidue anni dopo la morte di Ian Curtis, il brano PDA resuscita il baritono maudit quando l'inizio di Roland appare un impianto genetico del giro di Transmission su quello di Shadowplay. E ora Aprile 14, 2003, "here are the young men": eccoli prendere in penombra il palco del Transilvania, un'entrata senza trionfalismi dopo che i British Sea Power hanno intrattenuto la platea con un guitar-pop rumoroso e spiritato. In tema Nosferatu, il locale di via Paravia è la cornice per eccellenza: lumini cimiteriali e lapidi con i nomi dei gruppi e il giorno in cui di lì (tra)passarono, Interpol impeccabili negli abiti scuri di regolare e impiegatizio protodark (il solito quartetto mancuniano). Solo i basettoni del chitarrista (Daniel Kessler) lasciano a desiderare; comunque sono meno figurini scapigliati rispetto agli Strokes. Hanno facce da belli e dannati come il biondino Paul Banks, un viso da modello solo un po' troppo in carne in cui diresti a fatica risiedere il vocione cupo e disperato che si ascolta in Turn On The Bright Lights, roba da Curtis al quadro. Stilistico anche Carlos D, basso, un Ivor Novello uscito diretto dalla muta celluloide di The Lodger (L'inquilino, 1927). A proposito della nebbia londinese di cui era densa la pellicola di un ancor giovane Alfred Hitchcock, la bruma e le tenebre d'oltremanica, per gli Interpol, contano, e lo si era capito, quanto le mille e più luci della natale New York. Television, e prima ancora Velvet Underground, Wire, Cure e Psychedelic Furs, nella loro musica. Questo oltre ai Curtis, Sumner, Morris e Hook verso i quali mostrano una comprensibile deferenza, eppure proprio in questi giorni ascolto la raccolta retrospettiva dei Carnival Of Fools, Blues Get off My Shoulder, dove c'è una versione solo piano e voce di Love Will Tear Us Apart. Che tradisce fedelmente la lettera e preserva spirito e interpretazione. Questi americani sono assai più fedeli alla lettera nei loro pezzi originali: dal vivo sono cinque e l'attacco, c'era da scommetterci, è lo stesso del disco (Untitled): "I will surprise you some time" . Il concerto prende il largo tra la new wave decadente e la casa madre New York, il cui bacio congelato è descritto in uno dei pezzi più riusciti, NYC. Sentire Paul cantare dal vivo è un'altra cosa, il suo modo di fare è ben meno replicato e assai più personale. Un'ora totale di concerto compreso il bis di due brani: il repertorio, dopo un solo album, è quello che è. Captato al volo un commento mentre uscivo: "Abbiamo pagato quindici euro per vedere i Joy Divisions" (sic). Leggo sul treno un articolo entusiasta di NME su una loro performance dal vivo: "Come classici quali Stone Roses, Pixies e indietro fino ai Velvet, gli Interpol ispirano cuore, piedi e intelletto in egual misura". Spero che l'entusiasmo sia genuino e non qualcosa di dovuto al punto da suonare mollichiano. O sarò io troppo pignolo, come su certe "s" finali. Tommaso Iannini Calla Aurelio Valle, chitarra e voce, e Sean Donovan, basso
e tastiere del nuovo culto Calla, sembrano aver comprato gli abiti di
scena nello stesso megastore. Giubbotti e jeans ugualmente anonimi e
volti da ragazzi perbene, I Calla imprimono nella loro normalità
le stimmate delle star. Milena Ferrante
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The
Roots Il basso di Hub, un sesto dei Roots, freme, urla e
si contorce lasciato da solo sul palco a gemere in sei minuti di un
happening che resuscita una storia. E tutta Milano esplode. Nell'unica
tappa italiana del tour del gruppo hip hop che riscrive le regole
della musica nera in spigoli e colori primari, i Roots danno lezione
di eternità. Benchè ci voglia un po' perché il
sestetto inizi a inserire la marcia giusta, e Black Thought, il rapper
e frontman si dimostri in effetti il meno esplosivo del lotto (dando
una mano ai suoi soliti critici), i ragazzi di Philadelphia si arrampicano
senza apparente sforzo sulle vette del mondo. The Seed, l'hit
in origine cantato con Cody ChesnuTT, spunta nei supplementari, di fatto
solo la crema di un'esibizione strabiliante, in cui non si capisce più
dove finisca un'accuratissima ricerca sul suono (vedere il wah wah
sottilmente pizzicato) e dove inizi l'improvvisazione. E laddove la
complessità sensuale di Game Theory è spesso ridotta
a soli di voce e sezione ritmica è quando il gruppo decide di
lasciarsi andare che arriva l'asso. Milena Ferrante Bright
Eyes Ti bastano pochi minuti sul palco del Traffic Free
Festival per renderti conto del perchè Conor Oberst sia una
star. Con dieci musicisti sul palco, gli riesce di recitare altrettanto
bene la parte del direttore d'orchestra consumato come del baby eroe
per adolescenti alternativi con i denti da latte. I Bright Eyes suonano
qui, credo, praticamente gratis, eppure c'è già la caccia
finale ai fogli con la scaletta e quella alla lattina di birra su cui
l'eroe ha posato le labbra. I pezzi, già in origine canzoni pop
abbastanza eccentriche e mai con una sequenza di accordi che non sia
almeno un po' sbilenca, sono ingigantiti dall'impianto strumentale più
magniloquente che si possa immaginare: tre tastiere, due chitarre, un
basso, due batterie, violino e violoncello elettrificato e, a tratti,
persino i fiati. Bombastico, direbbero gli inglesi. E ho l'impressione
che sarebbe molto meglio se qua e là Conor mettesse i piedi sul
benemerito freno. Ma, a quel punto, non avremmo un gruppo da grande
palco e il gioco sarebbe finito lì. Invece, Conor ci crede. Ci
crede quando sale in ginocchio sulla tastiera perdendosi il microfono,
quando farfuglia improbabili storielle sul senso delle canzoni, o vaga
seguito come un'ombra da un tour manager fin troppo apprensivo. Milena Ferrante Moltheni Spesso non è solo cosa senti ma dove lo senti. Ho sentito Moltheni parecchi anni fa quando faceva promozione radiofonica a RadioRai. Ne è passato di tempo e per il cantautore marchigiano è stato abbastanza travagliato. Un disco, Splendore Terrore, che ha faticato a venire fuori per i soliti problemi a farsi sentire dalle case discografiche, specialmente ora che, si dice, l'industria è in crisi. Ma Moltheni sembra voler proseguire sulla sua strada. Accanto a un vero focolare e accompagnato da poche candele in una piccolissima, intima sala di una villa padronale di Cameri, sembra spuntare il suo vero io. In acustico, con una sola chitarra ad accompagnarlo suona struggente e passionale, ma mai malinconico. Un Tim Buckley tutto nostro, che predilige storie di rapporti individuali, entro i quali riesce a declinare le coordinate della Storia. Peccato soltanto che non abbia voglia di usare con continuità la sua splendida voce, ma forse ha semplicemente deciso che è meglio così. Non è un compito facile ammaliare con tocchi estatici rinunciando all'epicità. Non so. Per la sua musica qui a Cameri potrebbero bastare due sole parole: splendore, terrore. Milena Ferrante Patti
Smith Arthur Rimbaud quasi morì in piazza Duomo. Aveva fame e una donna di Milano lo prese con sé e si prese cura di lui e così vorrei salutare tutte le donne di Milano. Patti Smith richiama i suoi santi spiriti appena prima di partire in folle con Beneath the Southern Cross. Siamo allAlcatraz, niente che faccia pensare a qualcosa di mistico, ma Patti rotea su se stessa con i capelli al vento nel suo rito sciamanico. Patti Smith è tutta qui. Due ore di concerto per presentare il nuovo Trampin' (assieme al giovane compagno, Oliver Ray, a Tony Shanahan e agli storici Lenny Kaye e Jay Dee Daugherty) che finiscono per trasformarsi in qualcosaltro. Me la ricordo benissimo qualche tempo fa davanti alla folla immensa dellidroscalo a Milano allarrembaggio con People Have The Power e la gente che le urla Ti amo. Anche qui Patti è la donna della vita. Si, perché questo non è un concerto, ma una specie di teatro per il popolo, che profuma di celebrazione religiosa. Tanto che Patti a un certo punto invoca persino Albino Luciani, anche se a suo dire il papa, non capisco nemmeno cosa faccia. Inforca gli occhiali e recita per lui una poesia nel silenzio generale. Poi suona il clarinetto per celebrare. E celebrazione sia. Niente ci sembra retorica quando cè lei al comando.Persino larringa a pieni polmoni anti-Bush, con la sacerdotessa che grida che se non siete daccordo con quello che lamministrazione Bush sta facendo prendete dassalto le strade, fateglielo sapere, siamo qui, non staremo zitti, non resteremo in silenzio! E così capita che quando arriva immancabile People Have the Power alla fine di unora e mezza abbondante trapuntata di alcuni classici (Redondo Beach e Free Money) ci crediamo davvero. La grande marea dellAlcatraz balla su e giù agita i pugni in aria mentre lei da lassù stringe le mani delle prime file. Un tripudio. Non si può, non si può proprio resistere. Le cellule cerebrali della parte sinistra non ci sentono più, non gliene frega se poi questo è un inno in sostanza sufficientemente populista da far fatica a crederci. Una delicatissima Trampin' fa da preludio a unincendiaria versione di Gloria rivisitata da Van Morrison ma che è ormai tutta sua. Dun tratto ci sembra di essere traghettati nel 79 e di non aver perso niente. Non so perché ma in un attimo abbiamo quella strana sensazione di averla fatta nostra. Milena Ferrante Neil
Young Lo sappiamo. Un concerto acustico di Young è
di per sé un evento. Milena Ferrante Michael
Franti I had a dream. It is something I dreamt about when I
started listening to popular music or whatever you wanna call it. I
dreamt about popular music and its glorious past, when music was "popular"
in the true meaning of the word, a creative act from the people to the
people. It's Friday, and the band is about to play two shows
in Milan, one at a local radio's studio, another in a squat near the
elegant boroughs surrounding the centuries old Castello Sforzesco, but
I only get to know that at the very last minute. This, if you can think
about it, means that high scale promotion really matters. In four years,
Michael Franti has leaned back on "smallness" and chosen independence
and he's seemingly paying the price of it, invisibility. But the thing
is, he is not, definitely, an invisible man. He is a "man of substance,
of flesh and bone". Someone said that "it is sometimes advantageous
to be unseen, although it is most often rather wearing on the nerves".
'Cos, it happens, "you're constantly being bumped against by those
of poor vision". Milena Ferrante |
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